La sede del Centro sociale “Leoncavallo” di Via Watteau, a Milano, è stata sgomberata. Nonostante lo spiegamento di forze non si sono registrati scontri o tensioni particolari. È il terzo sgombero che il centro sociale subisce nella sua lunga storia; in pratica mezzo secolo di vita. Quelle del 22 agosto erano immagini ben diverse da quelle di una trentina di anni fa. Era il 16 agosto del 1989 e le foto del tempo raffigurano ragazzi incappucciati saliti sul tetto della sede di allora, pugni chiusi alzati in aria, sconcerto generale in un paese che, cominciava a far vedere il suo volto liberista dopo l’effimera stagione dello yuppismo degli anni ’80. Allora ci fu una chiamata nazionale a difesa del Leoncavallo, la stessa che oggi indice una manifestazione, prevista per il 6 settembre prossimo.
I commenti della politica
Lo sconcerto di Marina Boer, presidente delle Mamme antifasciste del Leoncavallo si alza alto nella sua denuncia politica: “A Milano non è più possibile avere una visione diversa. […] Milano è diventata una città di m…”. Molti i commenti di solidarietà che fanno rimbalzare la voglia (e il bisogno) di uno spazio di vita e di politica fuori, da sempre da qualsiasi logica lobbistica ed affaristica.
In tal senso si vedrà nei prossimi giorni se ci sono margini di trattativa per avere una nuova sede. Intanto il peggio della politica, specie quella di Palazzo, si fa forte dello sgombero rivendicando – in termini elettoralistici - una legalità da ripristinare. Una legalità, ovviamente, a corrente alternata.
Quello che vale a Milano, non vale certo a Roma dove l’occupazione ventennale (era il 2003) di Casa Pound non corre alcun tipo di pericolo. Si percepisce chiaramente il sapore dell’arroganza del Palazzo quando parla di legalità in una città come Milano dove si è riusciti a speculare anche durante la pandemia, dove affarismo edilizio e corruzione, potere politico e tangenti, cementificazione e gentrificazione stritolano la popolazione in una metropoli dove non è più possibile vivere per gli affitti troppo alti, il lavoro povero, l’emarginazione progressiva verso le periferie.
Il bosco verticale dà ossigeno solo a chi vive in alto, alla Milano della moda, alla Milano da bere, ad una città che si preoccupa più della fashion week che di chi non riesce ad arrivare alla fine della “week” a causa dei salari vergognosi su cui l’opulenza meneghina basa la sua esistenza.
I soldi della politica
Di quale legalità si vuole parlare nella città delle “olgettine” berlusconiane o del cuore pulsante di un partito che ancora deve restituire agli italiani 49 milioni di euro. Cosa è la legalità in un paese dove certa classe politica è continuamente pronta a sedersi ai banchetti dei potenti per ingozzarsi, affamando i suoi stessi elettori.
A presenziare nei salotti dei signori per offrire i propri servigi a suon di regalie, raggirando i propri elettori. Diceva il socialista Rino Formica che: “La politica è sangue e merda”. Quella che riempie le galere di poveracci mentre i colletti bianchi restano sempre impuniti nei loro delitti, nelle loro ruberie, e consente al paese di piazzarsi, secondo l’Indice di Percezione della Corruzione al 52° posto a livello mondiale e al 19° (su 27) tra i paesi dell’UE.
Ed allora si può continuare a parlare del Leoncavallo con la chiave di lettura infame della legalità? O altrimenti è semplicemente una questione – come si direbbe a Milano – di danè.
La politica degli ultimi
La realtà è meno complessa di quanto si possa credere. Il Leoncavallo, come il movimento delle occupazioni, il sindacalismo di base, le ONG che salvano migranti in mezzo al mare, e l’associazionismo culturale e sociale, antagonista e libertario, sono in realtà le testimonianze di una politica che afferma che non tutto si può comprare, o vendere.
Una politica che rivendica la centralità della società umana e dell’ambiente, delle relazioni solidali e sentimentali, del reciproco aiuto o – come si diceva una volta – del mutuo appoggio. Nelle foto del 1989 c’era chi sul tetto del Leoncavallo di allora sventolava la bandiera palestinese, monito allora, e rivendicazione oggi per un mondo in cui non devono esistere confini nazionali o imperiali. Un mondo dove le città – Milano compresa - devono essere fatte per vivere e non ergersi a luoghi di sfruttamento, umiliazione e depredazione.
È sicuramente la politica di chi si illude e crede nelle utopie, che però non è minoritaria, ma è l’espressione della quasi totalità delle persone che questo mondo lo mandano avanti credendo in un senso condiviso di giustizia e dovere sociale. Illudendosi certamente, anche perché non resta loro che la trascendenza della speranza. È una totalità umana che ha sempre perso ma che continuerà a rivendicare spazi e dignità.
Lo sgombero del Leoncavallo forse è l’eutanasia di una speranza di cambiamento modulata secondo visioni che meritano di essere aggiornate e rafforzate, lungo una prospettiva nuova che alla strumentale legalità del Palazzo, risponda con le parole dello storico leader del centro sociale – Daniele Farina - che ha affermato, in merito allo sgombero: “È una ben strana legalità questa, forse ce ne vorrà un’altra”.