Non è la solita storia di scuola, non è il classico teen drama: Adolescence arriva come un pugno nello stomaco. Una serie che inizia nella quotidianità più ordinaria e in pochi minuti la frantuma, lasciando lo spettatore senza fiato.
Una trama che scuote
Jamie Miller ha 13 anni. Vive con i genitori, Eddie e Manda, e con la sorella Lisa in una cittadina del nord dell’Inghilterra. La routine sembra quella di molte famiglie, finché una mattina la polizia non fa irruzione in casa: Jamie viene arrestato con l’accusa di aver ucciso una compagna di scuola, Katie, la ragazza che aveva rifiutato le sue avances e lo aveva deriso online.
Da quel momento la serie entra in apnea. Non si limita a raccontare il crimine, ma scava dentro la rete che lo ha reso possibile: la pressione dei pari, il bullismo che passa per meme e messaggi, le ideologie tossiche che si insinuano nel web, il silenzio degli adulti. Ogni dettaglio è un indizio, ogni parola non detta è un macigno.
Caratteri che fanno male
I protagonisti non sono figure di contorno, ma tensioni incarnate:
- Jamie (Owen Cooper) è l’adolescente fragile e vulnerabile che sotto la timidezza nasconde un magma di rabbia e solitudine. Non è un “mostro”, è un ragazzo spinto fino al limite.
- Eddie e Manda, i genitori, vivono l’incubo che nessuno vuole nominare: la colpa di non aver visto, il giudizio dei vicini, la frattura interna che trasforma la famiglia in campo di battaglia.
- Gli amici e la scuola non sono cattivi assoluti, ma la banalità di risate e prese in giro diventa benzina sul fuoco: piccoli atti che, sommati, scavano voragini.
Un piano sequenza che diventa gabbia
Girata in quattro episodi da un’ora, ognuno in piano sequenza senza tagli evidenti, la serie amplifica l’angoscia. È come essere bloccati in quella stanza, in quel corridoio, nel respiro di Jamie che cambia. Non c’è mai un momento di tregua: la telecamera ti incolla addosso il disagio, il ritmo non lascia scampo.
L’atmosfera è ossessiva: l’irruzione della polizia in casa, la famiglia sotto choc, il silenzio che cala mentre la comunità commenta sui social. Non c’è estetizzazione, solo realtà spogliata e cruda.
Un’inquietudine che chiede risposta
Quello che Adolescence lascia addosso è un vuoto nello stomaco. Non è solo la paura per Jamie o la rabbia dei genitori: è l’idea che un ragazzino possa trasformarsi in enigma, in minaccia, sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno se ne accorga.
La serie non offre risposte facili. Invece semina domande che restano: cosa succede quando un adolescente non trova un luogo dove sentirsi ascoltato? Quando i genitori vedono i gesti ma non i segni? Quando la scuola diventa teatro di ferocia anziché spazio di crescita?
Adolescence mette in scena proprio questo silenzio collettivo, questa complicità involontaria.
Eppure, nei suoi corridoi interminabili e negli sguardi che non si sottraggono, la serie suggerisce che un’altra regia è possibile anche fuori dallo schermo: quella di chi resta, di chi non fugge, di chi sceglie di ascoltare.
L’eco inquieta dell’adolescenza
Adolescence non consola e non redime. Mostra il lato più duro dell’adolescenza: un’età che non è solo trasformazione, ma terreno minato. E lo fa con la potenza di un racconto che ti costringe a non dire mai più “non lo avevo immaginato”.
Se sei adolescente, la serie ti dice che il silenzio non può restare silenzio per sempre. Se sei genitore, ti mette davanti a un compito difficile: non solo controllare, ma esserci; non solo giudicare, ma ascoltare.
Alla fine Adolescence ci lascia un brivido che non svanisce con i titoli di coda: la consapevolezza che il film non finisce sullo schermo, ma continua nelle nostre case, nelle scuole, nei corridoi della vita reale.