“Il bello dell'arte è che crei qualcosa che vivrà per sempre. Tutto deve essere accurato e perfetto perché il pubblico si aspetta un film all'antica per una storia del genere. Pensavo che sarebbe stato straordinario e lo è stato”. Così il regista Guillermo Del Toro nel documentario Frankestein, The Anatomy Lesson, realizzato dietro le quinte del film mentre dà vita al celebre classico della letteratura. “Alcune storie diventano parte del tuo DNA. Se sei religioso vengono dalla Bibbia. Se ti piacciono le fiabe, vengono dalle favole. Io sono molto legato a Le avventure di Pinocchio e a Frankestein”, spiega Del Toro. “Sono entrambe storie di figli anormali, nati da padri in qualche modo delusi. Vivo da tutta la vita con la creazione di Mary Shelley. Ci penso da quando ero bambino e volevo realizzare la mia versione”, continua, sottolineando quanto contino per lui il tema del rapporto padre-figlio e della frattura dell’essere umano.
Origine e temi dell’opera
Come il romanzo di Mary Shelley pubblicato nel 1818, anche l'opera cinematografica di Guillermo Del Toro (2025) racconta il mostruoso esperimento dello scienziato Victor Frankenstein che dà vita a una creatura tragica. Pur restando fedele al testo originale del mitico romanzo gotico che ha dato origine al genere fantascientifico, e cercando di assorbire lo stile del dialogo e dei temi della Shelley, il regista ha aggiunto la sua firma inconfondibile. È riuscito a far emergere nella sua versione il suo modo di mostrare emozioni e vita, esprimendo tutto l’ego, l’ossessione e cosa significhi essere umani che la scrittrice aveva descritto nel suo capolavoro.
Frankenstein non è un'opera sull'orrore, ma sull'umanità. Rappresenta una lucida meditazione sulla scienza e sul limite del sapere, sulla solitudine e sull’isolamento, sul bisogno d’amore e di appartenenza, sul rifiuto della diversità e sulla paura di ciò che non comprendiamo.
Le due angolazioni del racconto
“Negli anni ho deciso di raccontare la storia da due angolazioni. La prima parte del film è raccontata dal punto di vista dello scienziato, Victor. Ma c'è un elemento di incertezza: quanto è affidabile la sua versione? Esiste davvero una creatura?”, spiega Del Toro. Secondo lui, lo scopo di un mostro in questo tipo di letteratura è mettere in discussione la nostra umanità. “La seconda parte è come quando i tuoi figli ti dicono cosa hai sbagliato e tu hai un'epifania. È il padre prodigo che ascolta cos'ha sbagliato.”
Il produttore del film spiega che Del Toro è riuscito a incastrare le due parti in modo magistrale, creando lo spazio non per giudicare ma per capire, raccontando così la grandezza del libro che ha tanto amato.
Mary Shelley e l’ispirazione del mito
Mary Shelley scrisse Frankenstein, il moderno Prometeo nel 1816 durante un soggiorno estivo presso la villa Diodati sul lago di Ginevra, assieme al marito Percy Shelley, alla sorella Claire Clairmont e a Lord Byron. In una notte piovosa accettò la sfida di comporre un racconto dell’orrore. L'ispirazione le giunse in un sogno: “Vidi un uomo che, con un freddo sguardo e un grande sforzo, portava alla vita un corpo umano”.
La giovane scrittrice conosceva le teorie di Darwin sulla rianimazione della materia morta e gli esperimenti di Luigi Galvani e Giovanni Aldini sul galvanismo, ovvero l’uso dell’elettricità per stimolare nervi e muscoli e fornire forza vitale a un corpo. Da queste conversazioni nacque l’immaginario che diede vita al mito di Frankenstein.
Lo scienziato e la creatura
Nello sviluppo della narrazione di Del Toro comprendiamo che solo i mostri giocano a fare Dio. Il vero mostro è lo scienziato, ossessionato dal desiderio di creare qualcosa di vivente e perfetto. Ricompone pezzi anatomici di cadaveri e ridà vita al corpo attraverso impulsi elettrici. Il suo Victor non è un macellaio, ma uno scienziato visionario. La sua creatura non è un orco, ma un essere bello e potente, dalla grazia felina, che sperimenta il mondo da innocente, prendendo coscienza di sé.
“Parte del fascino del libro è che la creatura è come un adolescente che fa troppe domande. Si chiede: chi sono io? Perché sono qui? Qual è il mio scopo? Cos'è il mondo?”, spiega Del Toro. Il regista accoglie queste domande senza bisogno di dare risposte definitive.
L’interpretazione e la metamorfosi
La creatura inizia a parlare, a provare amore e dolore. Viene rifiutata dal suo creatore e dal mondo. Lo scienziato la considera un errore, ma scopre troppo tardi che la creatura ha una coscienza. Accecato dalla rabbia, tenta di distruggerla, ma lei sopravvive e fugge, cercando invano il suo nome, la sua origine, il suo perché.
La creatura diventa così simbolo di tutte le anime respinte e non comprese, condannata a vivere in un mondo che la giudica per l’aspetto, e non per l’essenza.
Estetica, dettagli e visione del regista
Jacob Elordi, interprete della creatura, racconta: “È stata un'esperienza immersiva diventare il suo corpo. Stare seduto per 10 ore a perdere la mia umanità, ricoperto di protesi che mi cambiavano la struttura del corpo”.
Il costume è composto da 42 parti, curate nei minimi dettagli per creare un effetto realistico. Ogni elemento, dai set ai costumi, fino alla musica, è stato pensato per rendere vivo il mondo di Shelley e Del Toro. Il risultato è un film che unisce rigore anatomico, estetica gotica e sensibilità umana.
Un finale di luce e redenzione
Il film è un omaggio al metafisico, al gotico e al nostro mondo. Una riflessione sulla creazione, la colpa e il perdono. La citazione di Lord Byron che accompagna i titoli di coda — “Il giorno si trascina anche se le tempeste bloccano il sole, così come il cuore si spezzerà ma continuerà a vivere anche da spezzato” — riassume la sofferenza e la resilienza dei protagonisti.
Nell’ultima scena, la creatura si allontana solitaria sul ghiaccio verso la luce dell’alba. Come Pinocchio, accetta la luce del giorno. “Amare un personaggio imperfetto perdonandone le imperfezioni: è così che si va avanti nella vita”, conclude Del Toro.