“Il mio nome è Hussain. Vengo dal Pakistan e ho 25 anni. Sono in Italia da dieci mesi. Mi piace vivere qui perché c’è la pace. Non mi manca il mio Paese, mi manca solo la mia famiglia”.
Un foglio stropicciato, una storia
Trovo queste righe su un foglio infangato caduto sull’erba di un giardino pubblico. Raccogliendolo, scopro che si tratta di un test di verifica: leggere e comprendere un breve testo descrittivo e rispondere a quattordici domande. Il brano proposto parla di Martino, uno come Hussain. La calligrafia è sicura, ci sono poche cancellature. Le risposte sono corrette: lo studente dimostra di capire l’italiano e di sapersi esprimere. L’esame potrebbe dirsi superato, ma il compito è rimasto lì. Forse una brutta copia.
Il ritratto di Hussain
Hussain, il cui nome significa “Re”, si descrive come allegro, sincero e amante della collaborazione. Lo immagino sulla panchina, all’ombra della betulla, mentre compila il questionario. Scrive di essere alto, con capelli lunghi e occhi neri. Il volto è chiaro, il naso allungato. In Pakistan ha studiato fino alla decima classe. Mostra come si scrive in urdu il suo nome, con lettere che ricordano l’arabo. Oggi vive con alcuni amici in un paese collinare noto per i vigneti. Forse lavora in una casa vinicola.
Il viaggio verso la pace
Penso alla sua ricerca di pace, al lungo viaggio che avrebbe potuto costargli la vita — nel deserto, sulle montagne o per mare — per trovare sicurezza in un Paese lontano. Chissà da quanto tempo ha lasciato la sua famiglia. Forse anni, se il cammino è stato a tappe, nascosto, tra frontiere da superare e lavori occasionali per sopravvivere. Quanto deve aver sofferto per non provare nostalgia del suo Paese, se non per la famiglia.
La rotta balcanica e i rischi
Conoscendo la sua provenienza, immagino che Hussain abbia seguito la rotta balcanica, la via migratoria che attraversa Turchia, Grecia, Macedonia, Bulgaria, Croazia e Slovenia. Un percorso insanguinato, tra respingimenti, campi profughi e violenze. Oppure un giro ancora più pericoloso, passando dalle coste nordafricane. Deve aver provato sollievo entrando in Italia, forse da Trieste o Lampedusa. Come tanti altri, probabilmente è partito perché nel suo Paese mancavano diritti e libertà fondamentali, fuggendo da violenza, terrorismo e insicurezza.
Pregiudizi e paure
A persone come Hussain, molti imputano la colpa di “cercare la pace altrove”. Li accusano di fuggire anziché lottare, di approfittare dei benefici altrui. Sono i commenti che ancora circolano nelle case, nei luoghi di lavoro, tra amici. Persiste la paura dello straniero “che ruba lavoro e porta delinquenza”. Una discriminazione radicata: per il colore della pelle, per la povertà, per una cultura diversa. Soprattutto tra le generazioni più anziane resta il sospetto, la percezione di insicurezza e invasione.
Una riflessione necessaria
L’Italia, come ogni Paese, non potrà dirsi davvero “terra di pace” finché non saprà accogliere chi chiede di farne parte. Penso: avrei io lo stesso coraggio di Hussain? Saprei lasciare tutto per una speranza, imparare una lingua nuova come l’urdu, il sindhi o il baluci? Probabilmente no. La barriera linguistica per me sarebbe insormontabile.
La sfida dell’integrazione
Il fenomeno migratorio è una sfida seria, soprattutto quando diventa massiccio e incontrollato. È necessario regolarlo, certo, e intervenire quando le leggi non vengono rispettate. Ma è altrettanto necessario accogliere con dignità e offrire opportunità vere di integrazione. Quel foglio compilato testimonia che Hussain ce la sta mettendo tutta per conoscere il nostro Paese e farsi accettare. Dietro a quella verifica c’è chi prova a rendergli possibile un futuro da cittadino italiano. La pace inizia anche da qui.