Impatto personale e riconoscimento
Ho un groppo in gola e un pugno nello stomaco. Ho appena finito di vedermi proiettata. Sono dentro il film, dai primi fotogrammi ai titoli di coda. Scena dopo scena, mi riconosco in Floria. Il suo reparto chirurgico, al terzo piano di un ospedale svizzero nel cantone tedesco, potrebbe essere ovunque. Ho tante sensazioni dentro. Lascio indietro quelle sul preoccupante disagio lavorativo e sul rischio clinico, allarmante.
Fatto così, è un lavoro decisamente folle. Ormai situazioni eccezionali, causate dalla carenza d'organico e dall'aumento del carico di lavoro, sono diventate purtroppo ordinarie. Emerge dirompente, piuttosto, la consapevolezza di essere, come la protagonista, ogni giorno più umana proprio grazie all'infermieristica.
Mi rendo conto in maniera disarmante che questa professione mi ha fatto diventare, rispetto a com'ero prima, addirittura più umana dell'umano, altresì dell'umanamente possibile ai più. Se esiste un limite superiore al grado di umanità raggiungibile da un essere umano, talvolta alcune circostanze nel lavoro di cura te lo fanno avvicinare e certe persone, come gli infermieri, riescono a superarlo.
La quotidianità infermieristica
Rivivo nella finzione cinematografica la stessa quotidianità della protagonista, che di normale non ha niente, a partire dallo scorrimento delle divise nel distributore automatico che mi provoca un improvviso senso di fastidio. Le associo ad una catena di montaggio, ad un lavoro in fabbrica, all'anonimato e all'omologazione. Mi sembrano improvvisamente gusci vuoti ed armature che hanno perso la loro funzione protettiva.
Ma quando la processione delle uniformi blu e bianche si arresta divento Floria che ha preso la sua dalla gruccia, ancor fiduciosa e piena di buone intenzioni montante il turno. Ed inizio a provare un sentimento di orgoglio. Mentre la storia si svolge e mi avvolge, incomincio a sentire però anche un certo senso di ansia, crescente, galoppante. Poi mi ritrovo inquieta, frustrata. E mi esplode anche la rabbia per le inaccettabili condizioni di lavoro e le esasperanti richieste dei pazienti e dei loro familiari, verso i quali pazienza e gentilezza sembrano non bastare mai.
Per empatia mi viene da piangere più volte. Mi ritrovo anche a sorridere quando sento certe nostre espressioni divertenti, di uso comune, per rincuorare i pazienti e vedo rivolgere particolari attenzioni ai bambini, come regalare due leccalecca.
Sono Floria che, infagottata in sciarpa e cappotto, percorre silenziosa i sotterranei verso lo spogliatoio. Che apre l'armadietto con i disegni della figlia, si toglie gli abiti comodi, un paio di jeans e una semplice maglia, e scambia poche parole con la collega. Sulle cose belle fatte nel giorno di riposo, in genere è qualcosa a misura di bambino se si è mamme o “niente di speciale”. O sulle scarpe da ginnastica, al posto delle calzature ospedaliere per andare più di corsa, che ha comprato in saldo.
Sono Floria in ascensore con lo zainetto in spalla. Che saluta i colleghi con un Ciao, arrivo tra un secondo. Che inizia il turno con un sorriso che nel corso delle ore cerca di conservare, stampandosene in faccia uno professionale e di circostanza per via degli accadimenti, sino a perderlo del tutto, piangere e poi ritrovarlo, seppur triste e tirato.
Sono Floria, che cerca un po' di tregua ed un briciolo di normalità telefonando un attimo a casa, la voce della figlia la fa stare bene. Sono Floria quando ascolta, conforta e si ferma al letto un po' di più anche se non ha tutto questo tempo per tutti. E anche quando tace, per non dare una risposta sgarbata o risentita.
I miei passi veloci sono come i suoi, avanti e indietro con i carrelli dei parametri vitali e delle medicazioni, su e giù dai piani. Bisogna ricordarsi di bere dalla boraccia, ogni tanto. Le sue mani sono le mie. Flebo, siringhe, fiale e flaconi, compresse e chiavi dei “veleni”. Ci vuole velocità, precisione, concentrazione. E il telefono in tasca, che non smette mai di suonare. Bisogna rispondere, prendere nota di numeri e prescrizioni, ricordarsi di andare da qualche parte e riferire.
Sono Floria quando in corsia saluta il medico con un "Buongiorno" e lui risponde con un "Ciao". Quando lo rincorre sulle scale per ricordargli di andare a parlare un attimo con il paziente anziano ma che, indispettito, la rimette al suo posto, ricordandole che se ne sta tornando finalmente a casa dopo aver lavorato tutto il giorno. C'è anche una scala gerarchica da rispettare. E allora Floria giustifica la sua assenza davanti al malato per non farlo sentire trascurato.
Sono Floria quando altri pazienti l'accusano di non essere in orario con la terapia e di non rispondere con prontezza ai campanelli. Non sanno o non capiscono che il ritardo è dovuto alle troppe cose da fare o ad un'urgenza. Come rianimare qualcuno. Che poi muore. Che poi occorre stare accanto al dolore dei familiari. E tornare dentro alla stanza per aprire la finestra, come a voler far uscire l'anima. E ricomporre la salma per renderla dignitosa e presentabile al cordoglio.
Sfide e fragilità
Sono Floria nei suoi momenti di fragilità. Sento il suo stress come fosse il mio, del mio turno del mattino. Con il passare delle ore, le incombenze si accumulano e gli imprevisti sconvolgono la regolare routine. Il suo respiro si fa allora affannoso. È stanca. Sbaglia terapia. Le sue mani tremano.
Perde la pazienza dopo averla avuta per tanti, contemporaneamente. Così sbrocca sino a lanciare dalla finestra un orologio da 40 mila franchi di un paziente che l'ha umiliata e le ha urlato addosso tutto il turno. Poi ritorna in sé, chiede scusa, sdrammatizza con la collega sino a ridere della sua reazione.
Le reazioni del pubblico
Quando il soundtrack sta per finire ho voglia di appoggiare la testa, come nella scena finale, sulla spalla della spettatrice accanto. L'ho riconosciuta. È stata una mia paziente in oncologia una decina di anni fa, ho fatto la mia parte per farla stare meglio ed allungarle un po' la vita ma potrebbe essere idealmente qualunque altro che invece ho perso, come Floria che non è arrivata in tempo a visitare l'ultima paziente del giro.
La signora se n'è già andata, mentre ero immersa ad ascoltare le mie sensazioni. Ho sentito distrattamente che si allontanava appoggiata alla stampella, tirando su con il naso. Si deve essere rivista anche lei, in quella paziente che aveva il cancro. C'è poca gente in sala, tutti si alzano piano e in silenzio, come in segno di rispetto verso ciò a cui hanno assistito.
Quando la coppia davanti a me, di una certa età, si gira mi accorgo che lui ha gli occhi lucidi. Lei sussurra “Mio Dio” mentre lo prende per mano. Sento una voce dai posti in fondo, “Santo cielo, è proprio così”. La realtà li ha colpiti in pieno, affondano. Non so quanto si rendano effettivamente conto della gravità di quello che hanno appena letto sullo schermo, come epilogo.
Che gli infermieri stanno abbandonando la professione e che in tutto il mondo, nel 2030, ne mancheranno ben 13 milioni. Una prospettiva drammatica, che dovrebbe metter paura. Capiamo che è un film di denuncia sulla crisi dei sistemi sanitari mondiali, sulla grave carenza di infermieri a livello globale e sulle loro pessime condizioni lavorative.
Chissà se dopo un film del genere torneranno a correre con le loro auto, come si vede nella finzione, sotto le finestre dell'ospedale, restando ancora indifferenti a tutta l'umanità che si consuma dentro. Chissà se adesso vedranno gli infermieri con occhi diversi. Spero che il film sia un successo al botteghino.
Riflessioni finali
Sono l'ultima ad uscire. Chiedo al proiezionista quanto il film resti in programmazione nel loro cinema. Ho già voglia di rivederlo. Ma in fondo non ne ho bisogno. Ho preso già atto di ciò che siamo e facciamo ogni giorno. Per riviverlo mi basta tornare domani al lavoro.
Non voglio essere uno di quegli infermieri che lasciano il proprio posto. Devo tenere duro, senza perdere la salute fisica e mentale. Ma c'è un costo da pagare. Floria ci urla in faccia che così non va. Tuttavia fare questo lavoro significa riuscire a trovare da qualche parte e ad esprimere, nonostante le innegabili criticità, un profondo senso dell'umano che altri sembrano aver perduto e che altrove non si trova.
“Mademoiselle, lei c'è domani?”, ripenso alle parole del paziente rivolte a Floria che si allontana dalla stanza alla fine del suo turno serale. “Sì, ci sarò”, rispondo anch'io aprendo la porta ed uscendo in strada, come lei, verso casa. Gli ultimi turni non finiscono mai.