L’ultimo turno: analisi del film di Volpe tra professione, politica e società

Written on 20 agosto 2025
Giordano Cotichelli


“L’ultimo turno” è il film dell’estate, atteso da molti. Una valida campagna di reclame lo ha accompagnato in queste settimane e, mentre ancora l’atmosfera vacanziera imperversa, l’opera della regista svizzera Petra Biondina Volpe non tradisce le aspettative. La trama scorre bene in una narrazione che non ha mai rischiato di scadere né nel pietismo gratuito, né tanto meno nell’affabulazione elegiaca. Merito anche dell’attrice protagonista – Leonie Benesch – che riesce magistralmente ad interpretare o, meglio, ad essere l’infermiera Floria. Non stupisce di conseguenza la candidatura agli oscar 2026 quale miglior film straniero.

Ancora un ultimo inciso prima di passare all’analisi della pellicola. Va reso merito a tutta la collettività professionale che ha costruito il racconto sanitario de “L’ultimo turno”, in una rappresentazione fotografica che non appare mai piatta, scontata, mostrando il “non luogo” ospedaliero come terra di quotidianità lavorativa intensa, di vita frenetica quanto alienante, con le ombre o le luci di tratti di corridoi, vani di ascensore, o ripostigli che restituiscono il mondo sanitario nella sua natura di istituzione totale e, al tempo stesso, di piccola società umana.

L’apertura del film

Ed ecco che la proiezione si apre con l’immagine, per alcuni secondi, del sistema automatizzato per il lavaggio delle divise del personale. In pochi fotogrammi c’è quanto basta per introdurre il pubblico al mondo della machine à guérir (Foucault) il quale, come una fabbrica, implica costi di produzione, organizzazione e personale addetto. Lo stesso personale impersonato dall’infermiera Floria la quale va al lavoro con un autobus, per iniziare il suo turno serale e far entrare nel vivo di una pellicola dove vari possono essere i rilievi da fare. A partire, in primo luogo, da quelli di ordine professionale.

Il rilievo professionale

Non c’è passo, non c’è movimento, atteggiamento, sguardo, oggetto manipolato, o sequenza di gesti che, nella finzione filmica, non parli di una professione matura, di una disciplina scientifica dove nulla è dato al caso e quindi ogni azione è espressione precisa di procedure, protocolli, linee guida specifiche.

Insomma, un “fare” e un “sapere”, che al tempo stesso però ci parlano di un “essere” caratterizzato, e tratteggiato, dalla profonda solitudine della professionista infermiera costretta a portare sulle sue spalle il peso della relazione con i familiari, i caregiver, i pazienti ed in medici.

Una figura da sempre incastrata fra l’incudine e il martello della gerarchia dei bisogni (la società) e quella dell’organizzazione (e delle sue figure apicali). Figura solitaria, atomizzata, che si muove in un mondo sanitario e assistenziale dove la scienza e il progresso forniscono strumenti all’avanguardia per la cura e l’assistenza.

Un mondo però che resta profondamente arretrato sul piano di un’organizzazione ancora piramidale, soffocata da una gerarchia disfunzionale e solo apparentemente modernizzata in un modello assistenziale che lascia indietro quello infermieristico per compiti – proprio del passato modello ospedaliero figlio dell’organizzazione industriale fordista – e assume quello del primary care, il quale però, nei fatti si rivela per quello che è: l’evoluzione del modello alienante della fabbrica nel modello ancor più alienante del toyotismo, delle isole produttive, dei carichi di lavoro per complessità di cure dove qualsiasi retorica modernista si infrange contro la questione portante del film, e della sanità d’oggi: la carenza di personale.

Non c’è passaggio relazionale fra l’infermiera Floria e il paziente di turno che non venga sottolineato, a tema di giustificazione, dal fatto che durante quel turno – purtroppo – sono presenti solo due infermiere, coadiuvate unicamente da una studentessa (del primo anno) che cerca di fare del suo meglio, riproducendo un modello formativo che tradisce una tossica continuità con il passato di sempre, figlio dell’Inghilterra vittoriana (maledetta Florence) o, se si preferisce, dell’Italia fascista (maledetta legge 1832 del 1925).

Oltre il documentario

Tutto questo in una pellicola di 92 minuti? Manco fosse un documentario! Eppure, la regista Volpe riesce nell’opera di costruire un pregevole prodotto in grado di superare qualsiasi visione stereotipata del pubblico, composto sia da pazienti, caregiver, familiari, sia sanitari.

Probabilmente non pochi si saranno soffermati su qualche particolare di una scena specifica, pensando alla sua esperienza, giudicando, ricordando, criticando e sanzionando. Probabilmente non pochi avranno pensato, di fronte alla capacità di far fronte alle tante pressanti richieste dei pazienti da parte di Floria: “Ma chi te lo fa fare?”, “Sì, ma quando mai! A me invece …”, “Dove l’hanno trovata a questa”.

La facilità del giudizio, del pregiudizio e del ragionamento semplice che un pubblico possa essere portato ad assumere, si stempera però con la rappresentazione della società presente nelle corsie dell’ospedale svizzero, dove si svolge la storia.

I malati presi in consegna dall’infermiera, quelli che animano la vita di reparto, fuoriescono dalla categorizzazione stessa che il mondo sanitario, nella sua rigidità elementare, tende ad affibbiare, dividendo l’umanità in: cronici, acuti, terminali, cardiopatici, tossici, dementi, etc., mentre viene restituisce la rappresentazione non di una società – quella ospedaliera - ma della società, quella di noi tutti fatta da uomini, donne, persone fragili, persone ricche, immigrati, anziani, persone disperate e persone sole.

Minuto dopo minuto il film definisce il contesto dell’azione che fa da sfondo al lavoro dell’infermiere, e mostra la sua vera e genuina identità, quella di essere un indicatore sociale. L’infermiere, dunque come soggetto protagonista emblematico che registra nelle sue carni i cambiamenti in corso nel tempo vissuto.

Un lavoro malpagato, pesante e frustrante, perché non ci sono soldi, non c’è personale, non c’è una visione che possa dichiarare apertamente che le scelte, a livello governativo, sono altre: la finanza, la guerra, i privilegi, che poi nella realtà sono la stessa cosa. Una condizione che riguarda non solo la professione infermieristica, ma la quasi totalità della “working class”, quella che una volta era chiamata la classe lavoratrice.

Il rilievo politico

E si arriva così all’altro rilievo da fare riguardo al film: quello politico. “L’ultimo turno” è una denuncia aperta alle politiche che stanno distruggendo il welfare, non solo quello sanitario, ma sociale in generale, dall’assistenza all’istruzione, dai trasporti ai salari, ai tanti tagli continuamente fatti che contraggono il personale, aumentano i carichi di lavoro ed imputridiscono i salari.

Ormai l’assenza di tutela della salute e il lavoro povero sono diventati una tragica oscenità eretta a sistema in tutto questo nostro bel mondo ricco occidentale. Del resto, non poteva essere altrimenti, perché accontentarsi di affamare il sud del mondo quando questo può essere fatto anche da questa parte del pianeta? Aumentando così i soldini dentro i salvadanai dei soliti furfanti.

Un’interpretazione eccessiva? In alcun modo. Il grido d’allarme lanciato dalla pellicola in relazione alla carenza di personale infermieristico – e sanitario - è solo una parte di un malessere che, la stessa attrice Leonie Benesch traghetta con la sua persona, reduce di altre opere che parlano della crisi dell’educazione pubblica (La sala professori) o della stessa democrazia rappresentativa (Babylon Berlin).

La protagonista, secondo il titolo originale del film – Heldin – rappresenta l’eroina della sanità, ma in realtà la retorica facile del titolo tedesco viene superata dall’azzeccato titolo italiano – non accade spesso – che parla di un ultimo turno, quello di una società della salute e in salute, che non prevede ulteriori gridi d’allarme in quanto è tardi, molto tardi, è molto lavoro si dovrà fare per poter recuperare tutto il bene pubblico depredato in questi decenni. Molto lavoro da fare da subito.

Il rilievo personale

Resta un ultimo rilievo dopo quello professionale, politico e artistico. È la dimensione personale, quella propria dello spettatore. In parte vi si è fatto riferimento, ma in questo caso è quella specifica degli infermieri-spettatori che guarderanno la pellicola, e qui non ci sono previsioni o congetture di sorta. C’è solo la testimonianza propria, appunto, personale, quella di chi scrive. La mia.

Come previsto “L’ultimo turno” è un film tanto bello per quanto ti fa star male. Ma non per le scempiaggini che si possono immaginare, come ad esempio alcune pratiche assistenziali fatte dall’infermiera Floria che, ai semplici di sempre, da subito faranno gridare al demansionamento. Niente di tutto questo.

Il film, per chi ha vissuto la corsia e il proprio percorso formativo, l’entrare in servizio come uno scendere in trincea, che sia quella dell’area critica o quella dell’accoglienza, parla di una quotidianità vissuta, sofferta per ogni singolo secondo di un tempo gravoso. Qualcosa che ti prende e non ti lascia più. Un sentire che è lo stesso di chiunque a questo mondo prova quando è a contatto con l’altro da sé, verso cui offre il suo aiuto, la sua prestazione, la sua opera.

È un qualcosa che ti rimane dentro per sempre e ti mette in pace con un’umanità da cui vorresti continuamente fuggire e verso cui, invece, si deve guardare, per ritrovarsi e non perdersi più.

Un mondo che ti ricorda che da soli non si va da nessuna parte, che la dignità della cura è legata alla dignità del lavoro, dei salari, quelli di tutti, quelli di chi risorse ne hanno poche o non ne hanno più. Tutti insieme, seduti sullo stesso autobus che attraversa le città dell’uomo, non per andare a lavorare, ma per correre lungo le tante strade della vita.