Lo sguardo in camera

Written on 30 luglio 2025
Danila Palladini


C’è un momento in “Persona” di Ingmar Bergman in cui tutto si incrina. Il volto dell’attrice si rivolge a noi, direttamente, senza mediazioni. Non è solo un gesto registico, ma una ferita che si apre nel tessuto stesso del cinema: lo spettatore non è più invisibile. È lì, presente, messo a nudo. Quella frattura - quella rottura della “quarta parete” - non è un gioco, ma una dichiarazione d’intenti.

Che cos'è la quarta parete?

La quarta parete è un concetto ereditato dal teatro: immagina una stanza in scena con tre pareti visibili, e una - la quarta - immaginaria, quella che separa il pubblico dalla finzione.

Quando un personaggio guarda in camera, parla allo spettatore o ne riconosce l’esistenza, quella parete si dissolve. Ma non è sempre lo stesso gesto. A volte è un ammiccamento. Altre volte una ferita. Altre ancora, un atto d’accusa.

I pionieri: dal muto alla crisi dell’identità

Già nel cinema muto la rottura della quarta parete era presente. Buster Keaton e Oliver Hardy la usavano per strizzare l’occhio al pubblico, creando un senso di complicità ironica. In Sherlock Jr. (1924), Keaton entra letteralmente dentro lo schermo, confondendo spettatore e protagonista in un turbine metacinematografico.

Ma è con il sonoro e con l’affinarsi della grammatica filmica che la tecnica inizia a farsi più complessa, più inquietante.

Nel 1966, Bergman rompe la parete in modo tragico ed esistenziale. Il cinema non è più un gioco, è un campo di battaglia psichico. In quello sguardo diretto di Persona, l’illusione si rompe e ci chiede: chi sei tu che guardi? Perché stai guardando?

Un anno dopo, nel 1967, Jean-Luc Godard porta al cinema La cinese, dove i personaggi discutono rivoluzioni guardando direttamente in macchina. La quarta parete, qui, è demolita con finalità ideologiche: il cinema è uno strumento di militanza e lo spettatore non può restare neutrale.

Il gioco postmoderno: complicità e ironia

Negli anni Ottanta e Novanta, il cinema statunitense riscopre la rottura della quarta parete in chiave pop. Una pazza giornata di vacanza (1986) fa scuola: Matthew Broderick parla con naturalezza al pubblico, spiegando le sue azioni, anticipando eventi, confondendo racconto e commento. È una tecnica usata per creare empatia e complicità, tipica della commedia postmoderna.

Anche Fight Club (1999) di David Fincher sfrutta questa dinamica, ma per destabilizzare. Edward Norton parla a noi con toni confidenziali, per poi svelarci che la sua stessa narrazione era un inganno. Lo spettatore si ritrova complice di una menzogna.

Un altro esempio potente arriva da Io e Annie (1977) di Woody Allen, dove il protagonista commenta i suoi stessi dialoghi, richiama esperti sulla scena, riscrive i ricordi. Il cinema diventa discorso sul cinema, e la quarta parete è un sipario che si apre e si chiude a piacimento.

Nel film Barbie (2023) di Greta Gerwig, Margot Robbie commenta la narrazione e chi la interpreta. Il film scherza sul proprio essere film, rendendo la rottura un gesto autoironico ma affilato.

In Don't Look Up (2021), Adam McKay usa la rottura per includere lo spettatore nel disastro. Tra breaking news, meme e montaggi spezzati, la narrazione ci ingloba. Siamo parte del problema.

Italia contemporanea: dal dramma poetico alla Storia

Paolo Sorrentino in La Grande Bellezza (2013) fa guardare Jep Gambardella in camera in un momento sospeso. Lo sguardo non spiega, ma disvela: c’è un vuoto, e ci riguarda.

Nanni Moretti ne Il Sol dell’Avvenire (2023) si mette in scena e sfonda la parete in modo esplicito. Nella parte finale, coinvolge lo spettatore nella creazione. La frattura diventa invito: partecipare al racconto, non solo guardarlo.

La serie M. Il figlio del secolo (2024), tratta dal romanzo di Antonio Scurati e diretta da Joe Wright, utilizza la rottura della quarta parete in modo strategico: Benito Mussolini, interpretato da Luca Marinelli, si rivolge direttamente allo spettatore. Il gesto è freddo, teatrale, ambiguo. Come se volesse sedurci e avvertirci allo stesso tempo.

Perché rompere la quarta parete?

Ci sono molti modi per farlo. Ma alla base, c’è sempre una domanda: perché non fingere più? Per Bergman, era per scavare nell’inconscio dello spettatore. Per Godard, per svegliarlo. Per Allen, per giocare. Per Waller-Bridge, per sopravvivere al dolore.

Per Fincher, per disorientare. Per Gerwig, per ironizzare sul sistema. Per Moretti, per dialogare con chi guarda. Per Sorrentino, per mostrarci lo sguardo dell’assenza. Per McKay, per farci vedere da dentro il mondo. Ogni autore ha una ragione profonda per rompere la parete: non è una tecnica, è una poetica.

E forse è proprio questo il cuore della questione. Rompere la quarta parete non è solo guardare in camera. È decidere che il cinema non è più un mondo chiuso, ma una finestra aperta verso di noi. Una finestra che può sorridere, accusare, o piangere. Ma che, sempre, ci riguarda.

Come si gira una scena con rottura della quarta parete?

Rompere la quarta parete è una scelta potente, ma va pianificata con attenzione. Dal punto di vista tecnico, implica una serie di decisioni registiche specifiche.

La camera diventa un personaggio, o meglio, l’occhio dello spettatore. Per questo si usa spesso un’inquadratura frontalissima, con asse ottico diretto, senza decentramenti: il personaggio guarda dritto in macchina.

La lente scelta può variare a seconda del tono:

  • grandangolo per un effetto comico o surreale (alla Fleabag)
  • teleobiettivo stretto per intensificare l’intimità o il disagio (Persona, Una pazza giornata di vacanza)

Sul set, l’attore deve recitare con consapevolezza della presenza dello spettatore, evitando movimenti che romperebbero il realismo della scena, ma mantenendo naturalezza.

La messa in scena circostante (scenografia, luce, suono) può rinforzare o contrastare la rottura: in Barbie, ad esempio, tutto il mondo resta coerente mentre lei parla con noi; in Don't Look Up, il montaggio stesso si fa parte attiva, confondendo realtà e commento.

Infine, il montaggio è cruciale: il taglio sullo sguardo in macchina può essere secco, improvviso, oppure preparato da una pausa, un silenzio, uno scarto narrativo. La rottura deve arrivare quando serve. E servire a qualcosa.