Tutto quello che resta di noi: memoria, identità palestinese e testimonianza di vita

Written on 03 settembre 2025
Monica Vaccaretti


Tutto quello che resta di noi, come un lascito, sono la gioia e l'amore con cui abbiamo vissuto e saputo dare alle persone care che ci sopravvivono. Rimane la testimonianza, fino all'ultimo giorno, su ciò in cui abbiamo creduto senza tradire la nostra identità e restando fedeli ai nostri ideali. Perdurano la speranza, il coraggio, la resilienza con cui abbiamo affrontato le avversità, diventando nobile esempio da seguire. Così che il vuoto lasciato da una persona cara, per quanto straziante sia stato l'addio, può essere esplorato intimamente sino a trovare un significato al lutto e guarire dal dolore profondo. C'è qualcosa di più grande in ogni morte, come la storia di un popolo.

Il film “Tutto quello che resta di te”

È ciò che si racconta nel film drammatico “Tutto quello che resta di te” (Germania, Palestina, 2024) del regista Cherien Dabis che uscirà nelle sale a settembre. È una data significativa che diventa simbolica, proprio mentre sta continuando la grande tragedia umanitaria nella Striscia di Gaza, con l'invasione finale per annientare Hamas, ed Israele sta progettando anche l'annessione della Cisgiordania, territori sulla sponda occidentale del fiume Giordano che fanno parte della regione storico-geografica della Palestina.

La memoria della Nakba

Ambientata proprio nella West Bank nel 1988, l'opera cinematografica esplora la storia palestinese attraverso gli occhi di un adolescente che si unisce con entusiasmo alle proteste locali contro i soldati israeliani. Improvvisamente la scena si blocca e, con fervore e angoscia dipinti sul volto, la madre del ragazzo si rivolge a noi, testimoni dei capitoli bui del secolo scorso e di questi giorni, per iniziare a raccontare una storia lunga sette decenni nella vita di una famiglia sradicata, a partire dal 1948, quando le organizzazioni paramilitari sioniste espulsero più di 700 mila palestinesi dalle loro case. È la Nakba, l'esodo forzato della popolazione araba palestinese, durante la guerra arabo-israeliana dopo la fondazione dello Stato di Israele. Il nome assegnato dalla storiografia a questo evento significa catastrofe.

Il film è una cronaca intensa e commuovente che abbraccia gli ultimi 80 anni della storia della Palestina e che si fa epica raccontando la lotta disperata di una famiglia per rimanere unita e preservare la propria dignità di fronte a forze più potenti. L'opera, che tocca il cuore intensamente, ci permette di capire il significato, raccontato con saggezza ed emozione, di “identità palestinese” proprio mentre si profila il rischio di una nuova Nakba, forse peggiore della prima.

Il piano GREAT e la “Riviera del Medio Oriente”

Da alcune indiscrezioni del Washington Post e del Financial Times emerge che i piani dell'amministrazione Trump, in accordo con il governo Netanyahu, sarebbero infatti quelli di costruire davvero sulle macerie della Striscia una Riviera del Medio Oriente con resort di lusso e città futuristiche, che rimarrebbe sotto controllo fiduciario degli Stati Uniti per 10 anni, come reclamizzato in un inquietante video nei mesi scorsi.

Il piano choc, denominato GREAT ossia Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation, prevede il trasferimento forzato di gran parte dei 2 milioni di palestinesi ma, a differenza del 1948, questa volta ad ogni palestinese che se ne va via volontariamente dalla propria terra verrebbero offerti 5 mila dollari nonché sussidi per l'affitto per 4 anni e per il cibo per un anno.

Dal documento, secondo le cui stime ad andarsene a queste condizioni sarebbe circa il 25% della popolazione, si apprende che gli abitanti verrebbero trasferiti temporaneamente in altri Paesi o in zone delimitate e sicure dentro Gaza fino alla fine dei lavori di ristrutturazione. Ai palestinesi proprietari di terra verrebbe altresì concesso un portafoglio digitale per crearsi una vita altrove oppure acquistare un appartamento in una delle otto città intelligenti della Riviera gestite dall'intelligenza artificiale.

Intanto, mentre questa follia prende incredibilmente forma, restano le testimonianze dei padri e delle madri palestinesi che dal 7 ottobre 2023, immane tragedia da una parte e dall'altra della Striscia, hanno lottato sino alla morte per proteggere la dignità della propria famiglia e garantirle un futuro, associandolo al riconoscimento di un popolo e al diritto ad una terra. Soltanto alcune storie emergono, la maggior parte sono uomini e donne anonimi sommersi dalla storia e dalle bombe. E stavolta non è un film, seppur autobiografico, ma è vita vera.

La voce poetica di Refaat Alareer

“Se dovessi morire, tu dovrai vivere per raccontare la mia storia, vendere le mie cose, comprare un pezzo di stoffa e qualche filo, magari bianco con una lunga coda. Così che un bimbo, da qualche parte a Gaza mentre fissa il cielo in attesa di suo padre – morto all'improvviso senza dire addio a nessuno né alla sua pelle né a se stesso – veda il mio aquilone, quello che tu hai costruito, volare alto e pensare, per un attimo, che sia un angelo a riportare amore. Se io dovrò morire che porti allora una speranza, che la mia fine sia un racconto”.

Così un poeta ed attivista palestinese, Refaat Alareer (1979-2023), rimasto ucciso insieme ai suoi tre figli in un raid aereo israeliano nel nord della Striscia. Era docente di letteratura e scrittura creativa all'Università Islamica di Gaza ed aveva fondato We are not numbers, un progetto di dialogo tra i giovani scrittori palestinesi e gli autori internazionali per promuovere la narrazione come strumento di resistenza e testimonianza.

L’ultima lettera di Mariam Abu Dagga

“Ghaith, cuore e anima di tua madre, ti chiedo di non piangere per me ma di pregare per me, così che io possa restare serena. Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me”.

Sono le ultime toccanti parole che Mariam Abu Dagga, una reporter palestinese freelance che documentava la guerra a Gaza per Associated Press, ha scritto al figlio dodicenne, evacuato negli Emirati Arabi, poco prima di essere uccisa lo scorso 25 agosto all'ospedale Nasser, a Khan Younis. La giornalista si trovava al quarto piano della struttura sanitaria, nel reparto di chirurgia, quando con lei hanno perso la vita venti persone, tra cui altri cinque reporter.

Il messaggio intimo destinato al figlio è stato pubblicato sui social dal fotoreporter Wissam Nassar, diventando patrimonio dell'umanità nel senso che in esso è racchiuso tutto ciò che resta di una madre, tutto ciò che dà, tutto ciò che è. Le sue parole sono così dolorosamente belle che ogni madre le sente proprie.

L'unico antidoto alla guerra

Il pensiero di Refaat e la voce di Mariam sono potenti. Sono tutto ciò che rimane in fondo dell'umano, forse l'unico antidoto alla guerra. Di fronte alla sua insensatezza, Refaat resta un'anima pura, poetica. Credeva nella bellezza delle persone, nonostante tutto, e ha speso la sua vita per costruire ponti tra le genti attraverso la cultura. E Mariam resta una giovane donna che amava. Un figlio, più di sé stessa. La sua professione. E la verità, che cercava e documentava ogni giorno. Purtroppo nemmeno ricordarsi cosa vuol dire, con tale intensità, essere madre ed essere padre sembra convincere l'uomo ad abolire la guerra dalla faccia della Terra.