La cura come atto politico

Scritto il 06/08/2025
da Giacomo Sebastiano Canova


C'è un tempo in cui ti accorgi che il tuo lavoro, per quanto ti appassioni, non basta più. Che prendersi cura di qualcuno significa anche interrogarsi sul contesto in cui quella cura accade e che rappresentare una professione non è un vezzo, ma un’urgenza.

Cos’è (davvero) la politica professionale

Fare politica professionale non è fare carriera. Non è salire su un palco, né difendere una categoria “contro” qualcun altro. È, semmai, l’opposto: è mettersi in mezzo, stare scomodi, tenere insieme visioni diverse per generare possibilità.

È accettare che ciò che accade nel proprio ambulatorio, in un reparto, in una centrale operativa o in una casa di riposo dipende anche da ciò che accade nei luoghi in cui si decidono i modelli organizzativi, le leggi, i contratti, le priorità.

La doppia lingua: istituzioni e corsia

Significa parlare la lingua delle istituzioni senza dimenticare quella della corsia. Significa affermare, con chiarezza e responsabilità, che le scelte politiche e organizzative incidono direttamente sulla qualità della cura.

Non chiediamo privilegi, ma condizioni che permettano alla nostra professionalità di esprimersi appieno, di generare valore per il sistema, di essere parte attiva nelle trasformazioni in atto. Perché, in fondo, è questo il nostro lavoro: prenderci cura delle persone e farlo in un contesto che riconosca il senso e il peso di ciò che facciamo.

Un atto creativo

Ma significa anche qualcos'altro: fare politica professionale è un atto creativo. Significa immaginare una sanità diversa da quella che abbiamo sempre conosciuto. Significa sfidare l’inerzia dei sistemi e mettere in discussione l’idea che ciò che è sempre stato continuerà a funzionare. In questo, la rappresentanza non è solo difesa, ma proposta.

È la possibilità di costruire visioni. Di lavorare, spesso in silenzio, per ridare senso a parole consumate come “prossimità”, “presa in carico”, “continuità assistenziale”.

Una forma di militanza civile

Non è semplice. È un lavoro che spesso si fa nel tempo che avanza tra una notte in turno e una riunione, tra una chiamata di emergenza e una conferenza. È un lavoro che non garantisce applausi, né riconoscimenti immediati. Ma è anche, per chi lo vive con consapevolezza, una forma profonda di militanza civile.

Perché la sanità pubblica è un bene comune e le professioni che ne sono il motore non possono permettersi di rimanere in silenzio. Non ora. Siamo in una fase storica in cui le scelte hanno un peso concreto: sui giovani che decidono se intraprendere o meno questo percorso, su chi ogni giorno decide di restare, su chi si sente ai margini e ha bisogno di ritrovare motivazione. Su chi chiede di essere visto non solo come un esecutore, ma come un professionista competente, responsabile, parte attiva del sistema.

Riappropriarsi dell’identità

Ecco allora che fare politica professionale è anche un modo per riappropriarsi dell’identità. Per restituire complessità a una figura che troppo spesso viene ridotta a stereotipo: l’angelo, l’eroe, il tecnico, il “braccio operativo”. Etichette comode, ma insufficienti. Fare politica significa rifiutare questi ruoli preconfezionati e costruire, invece, un'immagine autentica e plurale ci ciò che realmente siamo: infermieri.

Il cambiamento interiore

Ma c’è anche dell’altro.

Fare politica professionale ti cambia. Ti costringe ad ascoltare colleghi che lavorano in contesti molto diversi dal tuo. Ti mette di fronte a problemi che non puoi più ignorare solo perché non ti toccano direttamente. Ti espone a contraddizioni, ti obbliga a scegliere. Ti insegna la fatica del compromesso, la bellezza della mediazione, il valore del dubbio. Ti ricorda che non sei solo.

E alla fine ti lascia qualcosa di più. Una visione più ampia, una rete più solida, una convinzione più profonda: che fare bene il proprio lavoro è importante, ma provare a cambiare le condizioni in cui tutti lavoriamo lo è ancora di più.

Fiducia e cura: l’essenza della rappresentanza

In fondo, rappresentare una professione è un atto di fiducia. Fiducia nelle persone che la compongono, nelle idee che la animano, nella possibilità che ogni battaglia – anche la più piccola – possa servire a costruire un sistema migliore.

È per questo che, nonostante tutto, vale la pena farla. Perché non è solo politica. È prendersi cura, da un altro punto di vista.

Giacomo Sebastiano Canova | Infermiere, Presidente OPI Vicenza