Scrive Seneca al suo Lucilio: “Non vagare di qua e di là e non essere angosciato dal cambiare continuamente di luogo. Questa frenesia è tipica di un animo malato: il primo indizio di una mente equilibrata penso sia trovare un punto fermo e restare in compagnia di sé stessi.” Come ci sembra strana questa massima ai giorni nostri, a noi esseri umani occidentali del nuovo millennio, multipotenziali assuefatti al frenetico movimento tutto esteriore a cui, dolcemente invitati, ci sottoponiamo durante le nostre giornate.
La ricerca spasmodica della felicità
Noi siamo quelli che vagano di qua e di là, angosciati dal dover cambiare continuamente di luogo, alla ricerca spasmodica di qualcosa che non sta là dove stiamo incessantemente frugando: la felicità, la serenità, un senso di significato profondo.
I “luoghi” dell’esistenza
È chiaro che Seneca e noi in queste righe non stiamo parlando - o almeno non esclusivamente - di luoghi fisici (es. un vagare da una località del globo a un’altra, anche se una riflessione tale potrebbe essere, per certi versi, attuale) ma di “luoghi” dell’esistenza che hanno a che fare con le relazioni umane, con il lavoro, lo studio, le attività in cui impieghiamo il nostro tempo e le nostre energie e risorse nel corso della giornata, le “passioni”, il “tempo libero”, gli hobby, i divertimenti, lo svago, le distrazioni che ci concediamo fin troppo spesso.
Frenesia digitale e falsa felicità
Anche ai tempi di Seneca e Lucilio era presente questo atteggiamento convulso - altrimenti non sarebbe stato necessario l’ammonimento di Seneca a Lucilio, nelle sue lettere - ma oggi, nella società in cui viviamo, è decisamente esasperato.
Lo vediamo nel modo in cui utilizziamo le piattaforme di streaming, nell’uso che facciamo dello smartphone, della tecnologia digitale, delle app per acquisti, di internet, dei social media, dell’online: dispersi e angosciati, vaghiamo bloccati, intrattenuti su una distesa di cose da vedere, da ascoltare, da fare, da acquistare, da commentare, da cui non traiamo - poiché non selezioniamo, in base a ciò che siamo - alcun reale valore aggiunto ma che sempre ci racconta e ci convince, in modo suadente, della sua indispensabilità ai fini di essere felici, realizzati.
E allora fagocitiamo quantità nauseabonde di bit, prima su Netflix, poi su Spotify e su TikTok, poi su Amazon e YouTube alla ricerca di ciò che ci potrà una volta per tutte chiarire o nel tentativo inutile di non guardare in faccia il fatto che la vita umana non è un’operazione da risolvere ma un enigma, meraviglioso ma al tempo stesso inevitabilmente tragico, da incarnare.
Relazioni consumate come contenuti
Lo vediamo nelle relazioni umane, in amore, in amicizia e in famiglia: consumiamo relazioni con la stessa velocità con cui, facendo scrolling, consumiamo contenuti online. Non appena una relazione potenzialmente significativa con un altro essere umano inizia a non corrispondere alle nostre aspettative avide di perfezione (che per noi corrisponde all’assenza di attrito), dimostrando i tratti difficili che ogni intreccio umano comporta, scegliamo di dirigerci, in un’angoscia fuggiasca che raccontiamo come un atto di libertà, verso nuovi lidi ai nostri occhi più promettenti, solo per poi scoprire, infastiditi, l’attrito commisto all’intesa, il bello unito al tremendo.
Scelte di vita e senso di smarrimento
Dinamiche simili si presentano nella scelta e nel proseguimento di un percorso lavorativo o di studio: quando ci troviamo in quei momenti della vita in cui dobbiamo scegliere un percorso di studi o un nuovo lavoro ci troviamo bloccati in quella “divagazione immobile” di cui parlavamo poco sopra, ovvero proviamo più cose che ci vengono rese disponibili come in un catalogo, saltelliamo di qua e di là, valutiamo in modo maniacale - per non commettere nessun errore - ogni minimo dettaglio di ogni opzione messa sul tavolo e, dopo aver scelto una di esse - se non abbiamo scelto la via della procrastinazione - presto o tardi, appena l’attrito emergerà dalla nuova esperienza, proveremo la sensazione di aver preso la scelta sbagliata e che una vita diversa, migliore, più perfetta, meno sfortunatamente difficile, sarebbe stata possibile se solo avessimo scelto diversamente. E via di nuovo, alla ricerca.
Il meglio per noi sta sempre da un’altra parte. Il posto giusto per noi - quello in cui siamo pienamente realizzati, in cui non sentiamo la fatica, in cui non soffriamo, privo di attriti - non è il posto in cui ci troviamo, è sempre altrove. È da ricercare, da trovare, in una corsa che non ha fine.
Fuga dalla fatica: tempo libero e passioni
Atteggiamenti del tutto simili li abbiamo con le passioni, gli hobby, le attività del nostro tempo libero che richiedono comunque un certo grado di impegno. Appena la fatica fa il primo passo dentro casa nostra noi le sbattiamo la porta in faccia, mettiamo all’asta l’immobile e prendiamo un biglietto per le Canarie, che là si sta meglio. “Ma chi me lo fa fare?” è la massima del nostro tempo. Ma come diceva Seneca la frenesia che consegue a questo atteggiamento esistenziale è da animi malati.
È come se volessimo colmare il vuoto enigmatico senza risposta che dimora dentro ciascuno di noi con ciò che è presente all’esterno: ammassando roba, cambiando di volta in volta l’oggetto venerato come salvifico e risolutore, riempiendo l'interno con l'esterno, spostandoci prima di qua e poi di là. Inutilmente.
Trovare un punto fermo interiore
Bisogna trovare anzitutto un punto fermo e restare in compagnia di sé stessi, che non vuol dire diventare un eremita sul cucuzzolo di una montagna e non avere più alcun contatto con niente e nessuno, ritirarsi dal mondo. Significa soffermarsi sulle scelte prese, restare sul posto - con fiducia, se non fede - nelle relazioni di ogni giorno, mantenere con coraggio la posizione nelle cose che compongono la vita e non disertare, per paura, per pigrizia o perché ci si illude di poter trovare la Verità altrove, in un luogo che sia fuori da noi stessi.
Significa fare tutto ciò rimanendo presenti, nelle piccole cose che compongono ogni giorno, senza cedere alla distrazione perpetua, all’intrattenimento devitalizzante, allo svago illimitato e al disimpegno che porta alla perdizione. Selezionare, rinunciare a qualcosa e non pretendere di volere tutto, e soprattutto subito. Vuol dire ritagliarsi del tempo per guardarsi vivere, per sentirsi davvero, per stare in compagnia delle forze che dimorano nel nostro bello e nel nostro tremendo.
Trovare e coltivare dei “secondi”, “terzi”, punti fermi nel proprio quotidiano che siano conseguenza della conoscenza del proprio “primo” punto fermo: l’animo che ognuno porta con sé, l’interiorità che lo caratterizza. Questo è il nostro compito di oggi e per i giorni a venire.