Nella pace delle cose selvagge

Scritto il 07/08/2025
da Monica Vaccaretti


In ogni tempo, a parole, ogni uomo è dalla parte della pace e ne esprime un forte desiderio. Di pace parlano i governanti nei loro grandi discorsi, la invocano i religiosi nelle omelie dagli altari, la urlano i cittadini che marciano nelle piazze. La pace, cantata sin dall'antichità dai poeti, è tanto amata perché, dopo la vita, è il bene più importante dell'umanità.

Cos'è la pace

Prima, dopo, sempre, scrive il poeta cinese Lin Tian Min. La si desidera a tal punto che dal 1901 chi tra gli uomini del mondo la promuove per il benessere comune viene onorato con un premio, il Nobel.

La pace nasce nell'intimo e si sviluppa nel quotidiano ogni qualvolta ciascuno dà valore ad ogni forma di vita, a qualcosa che gli è caro, agli altri. È pertanto una responsabilità personale, che matura grazie al dialogo e all'inclusione reciproci, che diventa poi collettiva grazie al rispetto dei rapporti internazionali tra gli Stati. La pace è pertanto quella condizione di vita, senza tensioni e conflitti, in cui ogni persona svolge normalmente e serenamente ogni aspetto politico, economico, sociale e culturale del suo Paese.

Il sogno utopico e la realtà

Spesso, come in Imagine di John Lennon, si immagina per fede o per bontà un bel mondo in armonia senza più nessuno da ammazzare e nessuna ragione per farlo. Un sogno utopico. La pace purtroppo esiste perché è minacciata dal suo contrario, la guerra che sarebbe “tra quelle cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra” (Promemoria, Gianni Rodari).

Ad ogni nuovo rumore di guerra, soprattutto dopo l'orrore dei due conflitti mondiali, non si vuole che “il sangue torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica”, come scrive Pablo Neruda nella sua Ode alla pace in cui la chiede per tutti i vivi e per le ceneri dei morti, nonché per tutte le terre e le acque.

“Sia pace per le aurore che verranno e per tutto il grano che deve nascere”, canta il poeta chiedendo pace per ogni amore, per il grano ed il vino, i ponti e le città all'alba quando si sveglia il pane, per le parole. È, poeticamente, la pace mondiale come la sogniamo tutti.

Tuttavia non basta desiderare la pace per costruirla con un'architettura solida così che si diffonda permanentemente nel mondo intero. “Sarebbe una festa per tutta la terra fare la pace prima della guerra”, esorta ancora Gianni Rodari in Dopo la pioggia. “Non sarebbe più conveniente il temporale non farlo per niente?” suggerisce paragonando la pace ad un arcobaleno senza tempesta.

Ma del resto gli uomini giocano alla guerra sin da bambini, ricorda Bertolt Brecht. “È raro che giochino alla pace perché gli adulti da sempre fanno la guerra. Tu fai pum e ridi, il soldato spara e un altro uomo non ride più”. Secondo Einstein, la guerra non si può umanizzare ma si deve soltanto abolire. Ciò sarebbe tuttavia impossibile per la naturale inclinazione dell'uomo a distruggere, come scrisse lo scienziato in un intenso carteggio con Freud.

Ma che volto ha la pace? Il poeta Paul Eluard la descrive, ricordando la tragedia del millenovecentodiciassette, come “ogni luogo dove abita la colomba e il più naturale è la testa dell'uomo”. Ne parla come di un frutto meraviglioso prodotto dall'amore per la giustizia e la libertà, che non marcisce perché ha il sapore della felicità. “È pane per tutti, per tutti delle rose”, scrive nei suoi versi auspicando che la terra produca e fiorisca e che la carne e il sangue viventi non siano mai più sacrificati.

Secondo il poeta, pace è quando, liberati i propri figli dal timore delle catene, si preparano i giorni e le stagioni a seconda dei sogni, quando si crede tutto il bene possibile, si cresce senza limiti e si tende la mano verso il proprio fratello. Pace è quando l'uomo riscopre il bisogno di vivere e il bisogno di far vivere. È quando riconosce che la propria felicità coincide con quella degli altri con cui ci si divide la vita, nonché che lo spazio e il tempo sono di tutti. Quando l'uomo è in preda alla pace, fa notare, ha sempre un sorriso e una speranza.

La ricostruzione e la memoria

La pace è, dopo ogni guerra, “la fine e l'inizio”, scrive Wislawa Szymborska. Pace è quando “sull'erba che ha ricoperto le cause e gli effetti c'è chi deve starsene disteso con la spiga tra i denti, perso a fissare le nuvole”, con le maniche a brandelli a forza di essersele rimboccate per ripulire e mettere in ordine in casa tra schegge di vetro e stracci insanguinati, spingere le macerie ai bordi delle strade per far passare i carri pieni di cadaveri, trascinare una trave per puntellare il muro, rimettere i vetri alla finestra e montare la porta sui cardini, ricostruire ponti e stazioni.

“Non è fotogenico e ci vogliono anni”, denuncia la poetessa polacca. La ricostruzione della pace avviene poi, in tempi moderni, lontano dalle telecamere perché “sono già partite per un'altra guerra”. Szymborska avverte che si arriva a dimenticare la guerra, come prima si era dimenticata la pace. Pace è anche quando “c'è chi con la scopa in mano ricorda ancora com'era. C'è chi ascolta annuendo con la testa non mozzata ma presto la maggior parte delle persone ne sarà annoiata”. Pace è quando “chi sapeva di che si trattava deve far posto a quelli che ne sanno poco. E meno di poco. Ed infine assolutamente nulla”. Negli ultimi versi della Szymborska ritroviamo il timore, più volte espresso, di Liliana Segre nei confronti dell'Olocausto quando l'ultimo sopravvissuto non ci sarà più.

La pace come diritto umano

“La pace nel mondo è quel tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta, quella che permette agli uomini e alle nazioni di crescere, sperare e costruire una vita migliore per i propri figli”. Così la descrisse John F. Kennedy in un discorso presso l'Università di Washington tenutosi il 10 giugno 1963 in cui delineò le strategie per la pace di fronte alla nuova faccia della guerra, quella fredda tra due grandi potenze, Stati uniti e Unione Sovietica, impegnate allora in una corsa agli armamenti illimitata, incontrollata ed imprevedibile.

In quell'occasione sottolineò quanto la pace sia da ricercare come obiettivo razionale necessario degli uomini razionali, sebbene di fronte ad uno scenario caratterizzato “dalla possibilità di mantenere forze nucleari vaste e relativamente invulnerabili e rifiutarsi di arrendersi senza ricorrervi” non avrebbe senso parlare di pace mondiale.

Tuttavia si deve perseguirla perché, spiega l'ex presidente americano, “il legame comune più importante tra gli uomini è che tutti abitano su questo piccolo pianeta, respirano tutti la stessa aria, hanno tutti a cuore il futuro dei propri figli e sono tutti solo di passaggio. Ovunque siamo, dobbiamo tutti, nelle nostre vite quotidiane, vivere secondo l'antica fede che pace e libertà camminano insieme”.

La pace, continua, è fondamentalmente una questione di diritti umani. “È il diritto di vivere le nostre vite senza paura di devastazione, il diritto di respirare l'aria come la natura l'ha fornita, il diritto delle generazioni future ad un'esistenza sana”. Pur riconoscendo che nessun trattato, per quanto vantaggioso per tutti e per quanto strettamente formulato, possa offrire una sicurezza assoluta contro i rischi di inganno, Kennedy ritiene che l'eliminazione della guerra e delle armi salvaguardi non solo gli interessi nazionali ma soprattutto gli interessi umani.

“La pace mondiale, come la pace nella comunità, non richiede che ognuno ami il proprio vicino, richiede soltanto che vivano insieme in mutua tolleranza, sottomettendo le loro dispute ad una giusta e pacifica soluzione.

Nessun governo o sistema sociale è così malvagio che il suo popolo debba essere considerato privo di virtù”, suggerisce. “La storia ci insegna che le inimicizie tra nazioni, come tra individui, non durano per sempre. Per quanto fissi possano sembrare i nostri gusti ed antipatie, il corso del tempo e degli eventi spesso portano cambiamenti sorprendenti nei rapporti tra nazioni e vicini”. Pertanto ammonisce che la pace non deve mai essere impraticabile e la guerra non deve essere inevitabile.

Un nuovo alfabeto della pace

Secondo il filosofo Brecht pace è non avere fame, non avere freddo, non avere paura. “Pace vuol dire che non a tutti piace lo stesso gioco, che i tuoi giocattoli piacciono anche agli altri bimbi che spesso non ne hanno perché ne hai troppi tu, che i disegni degli altri bambini non sono dei pasticci, che la tua mamma non è solo tutta tua e che tutti i bambini sono tuoi amici”. Per avere davvero la pace occorrerebbe un radicale cambiamento culturale, che inizi da ogni singolo cuore umano.

Dovremmo allora tutti sedersi e dipingere la pace con una scatola di colori come la poetessa israeliana Talil Sorek, “Non avevo il rosso per il sangue dei feriti, non avevo il nero per il pianto degli orfani, non avevo il bianco per il volto dei morti, non avevo il giallo per le sabbie ardenti”. La giovane ha solo colori brillanti, decisi e vivi. “Avevo l'arancio per la gioia della vita, il verde per i germogli e i nidi, il celeste per i chiari cieli splendenti e il rosa per il sogno e il riposo”.

Ritrovare la pace interiore

E quando succede che viene la guerra o che la disperazione per il mondo cresce dentro di noi a tal punto da sentirsi profondamente turbati con il timore per la propria sorte e di quella dei figli, dovremmo fare come suggerisce il poeta Wendell Berry: andare a “distendersi dove l'anitra riposa sull'acqua”. Per recuperare la propria pace interiore nella pace del mondo perduta, bisogna “entrare nella pace delle cose selvagge che non si complicano la vita per il dolore che verrà”, così da riposare tra le grazie del mondo e sentirsi comunque liberi.