Un viaggio nelle voci e nei volti di chi ha vissuto l’orrore dell’occupazione russa a Bucha. Il documentario “Lirica Ucraina” di Francesca Mannocchi raccoglie testimonianze strazianti ma anche segnali di resilienza e desiderio di pace. Questo articolo ripercorre le storie, i ricordi e il significato profondo di una tragedia che continua a interrogare l’umanità.
- Una testimonianza tra le macerie
- Il documentario di Francesca Mannocchi
- Il significato di “Lirica Ucraina”
- Le voci per i morti di Bucha
- Le testimonianze delle donne
- Fosse comuni e tombe improvvisate
- Rifugi improvvisati e vita negli scantinati
- Sopravvivenza quotidiana
- Dolore, resistenza e nuovi equilibri
- Il desiderio di pace e libertà
Una testimonianza tra le macerie
“La guerra finirà quando i russi smetteranno di rovinare le menti. Perché i russi, quando sono arrivati, erano come degli zombie. Dicevano che erano venuti per salvarci. E da cosa? Da chi? Dai nostri appartamenti? Dalle case?”. Così un ucraino tra i resti della sua cucina, in un appartamento sventrato dalle bombe dove il fornello quasi cade nel vuoto. “Io credo che Putin voglia riunire tutta la Russia come era prima, come l'Unione Sovietica. Io li ho vissuti quei tempi. Ho vissuto metà dei miei anni, ne ho più di 60, sotto l'Urss e l'altra metà senza l'Urss”, spiega fumando tristemente una sigaretta. “C'è un detto russo che dice: se il fucile è appeso al muro, un giorno dovrà sparare. E alla fine ha sparato. E a che prezzo? La guerra è sempre guerra. Mi sembra che non passi un anno senza la guerra, lì e là, dappertutto. Non finirà mai. Non è mai finita”, ammette sconsolato guardando la pioggia dallo squarcio di casa sua. Poi improvvisamente tace e si mette a cercare del cibo in una casseruola, è vuota, e recupera un cambio di pantaloni tra il caos dell'esplosione e la polvere.
Il documentario di Francesca Mannocchi
È una delle testimonianze raccolte in “Lirica Ucraina”, il documentario realizzato e diretto dalla giornalista italiana Francesca Mannocchi, arrivata a Bucha, 86 km a nord di Kiev, due giorni dopo la fine della sanguinosa occupazione russa, durata 38 giorni. Si tratta di uno sconvolgente reportage di guerra raccontato attraverso il silenzio spettrale dei luoghi e le voci degli ucraini sopravvissuti all'orrore che qui si è consumato. Sono documentate le evacuazioni dei civili da parte della Croce Rossa, l'attraversamento del ponte crollato, l'ospedale da campo con i soldati feriti e mutilati, la fuga in auto con la scritta “bambini” sul cruscotto. La tragedia, già inaudita, era appena cominciata e si allargava in tutto il Paese.
Il significato di “Lirica Ucraina”
L'opera cinematografica, che ha vinto nel 2024 il premio David di Donatello, è chiamata lirica per la profondità emotiva delle storie e per il forte coinvolgimento umano con il quale ci si immerge, con dolorosa compassione, nel conflitto che dal 24 febbraio 2022 sta dilaniando l'Ucraina. Se si considera la prima invasione del 2014, gli ucraini non vivono in pace da 11 anni e 185 giorni. L'invasione su larga scala dura da 1280 giorni. Sebbene Bucha rappresenti l'inferno peggiore, il sentimento e l'atteggiamento degli ucraini nei confronti dell'invasore non è cambiato in questi oltre tre anni di guerra. “Lirica Ucraina” rappresenta pertanto ieri ma anche l'oggi e può aiutare a capire, attraverso l'umanità e la resilienza della sua popolazione, perché l'Ucraina non si arrenderà incondizionatamente e pretende una pace giusta e duratura.
Le voci per i morti di Bucha
Holetska Iryna e gli altri uomini e donne sopravvissuti a Bucha parlano anche per i morti, quei 458 loro concittadini che sono stati massacrati nelle case e lungo le strade. Le loro testimonianze diventano un disperato canto corale, a nome di tutti gli ucraini. Raccontano che il cecchino sparava alle persone a piedi, in bici, dentro le macchine. Sono state giustiziate e lasciate insepolte, persino bruciate vive. Quando sono entrati in città per liberarla, i soldati ucraini hanno appeso un foglio sulle auto incendiate, “Cadaveri”. “Perché sparano ai civili e ai bambini?”, si interrogano tra le lacrime chiamando i russi “bestie” e “maledetti”. Quelli che sono rimasti a Bucha, senza scappare in quella prima fase di guerra, sono soprattutto anziani. I giovani sono andati via tutti, dicono. “Non avrebbero sopportato tutto questo, capite? È troppo. Sono fortunati a non vederlo”.
Le testimonianze delle donne
“Temo che i cani mangeranno il corpo di mio marito. È spaventoso”, racconta una donna che dice di aver chiamato il direttore del cimitero ma era già fuggito all'estero per mettersi in salvo. “Bisogna portarlo in ospedale”, ha pensato. “Ma quale ospedale che il nostro villaggio è circondato! Ho chiamato l'ambulanza. Mi hanno detto: non verremo, hanno bombardato la nostra sede. Fate quello che potete”. Così lo ha ricoperto con un lenzuolo pesante, di flanella, come meglio ha potuto ma le scarpe e le caviglie sono rimaste fuori dal sudario. L'uomo è sul fianco, così come è caduto giù.
“Aveva una scheggia sulla testa. Era ricoperto di sangue. Ha provato a rialzarsi ma diceva che gli facevano male le costole. Poi è svenuto. Ho preso una benda per fasciarlo e ho provato il polso, niente. Gli ho sollevato la giacca. Aveva un buco nero nello stomaco. Era morto”. Lei si è salvata perché si è nascosta sotto il recinto mentre andava a prendere i documenti sotto l'albero di noce. “Gli aerei continuavano a bombardare il nostro orto. Ci eravamo accovacciati e non sapevamo più cosa fare. Ci eravamo arresi al destino”, spiega piangendo.
Fosse comuni e tombe improvvisate
“I soldati russi ci hanno detto nessun cimitero. Seppelliteli dove vi pare, sotterrateli come dei cani altrimenti ci stenderemo accanto anche voi”. Poi hanno incominciato a portarli nelle fosse comuni, scavate nella zona della chiesa di Bucha. Ci sono tombe improvvisate ovunque. E fosse ancora vuote, dentro si levano già grandi croci di legno.
Mostrano quelle dei vicini di casa, che sono come parenti, dicono. Lyusya Volodymyrivna riposa in pace in un campo di fango. Ihor, crivellato di colpi per aver tentato di fuggire da uno scantinato in cui i soldati russi avevano ammassato le persone per ucciderle con il gas, aveva solo 14 anni. Vitya e Yura, fratelli, giacciono ancora scomposti e sommersi dal fango di un fosso. Kesha, un bambino di 9 anni, è sotto le macerie. Lo stanno cercando, a qualcuno pare di sentire la sua voce. Sua madre e suo padre piangono da una parte, abbracciandosi.
Rifugi improvvisati e vita negli scantinati
“Non avevamo diritto ad uscire. Eravamo come lepri. Se lo facevamo dovevamo tenere le mani in tasca ed indossare un drappo sul braccio. Bianco. Sa, com'era per gli ebrei. Solo che loro avevano il numero mentre noi no”, racconta un'altra donna davanti al condominio in cui è rimasta rintanata tutti i 38 giorni di occupazione. “Perché avrei dovuto abbandonare la mia terra? Quando sono entrati i soldati in casa abbiamo solo chiesto loro di non uccidere noi e i cani. Abbiamo avuto molta paura ma siamo sopravvissuti. Abbiamo resistito a tutto questo. Siamo vivi, lo capite? Siamo vivi”, riesce a sorridere.
“Qui non abbiamo un rifugio per nasconderci. Qui non ci sono posti sicuri. Non c'è nulla. Dove vai quando non sai dove correre e dove nasconderti? Proviamo a salvarci da soli e sopravviviamo finché possiamo. La gente fa quello che può per sistemarsi negli scantinati. Ognuno ha un suo piccolo angolo.”, racconta una donna anziana tra le macerie della sua casa. Qui non siamo a Kiev dove esiste la stazione metropolitana più profonda del mondo, oltre 100 metri sottoterra, costruita per scopi militari.
È la Arsenalna, che gli abitanti della capitale usano come rifugio antiaereo. La donna ricorda di aver già vissuto una guerra, quella con i tedeschi, quando dal villaggio era stata sfollata a Dnipro. “Allora non capivo nulla, avevo 4 anni. E adesso, grazie a Dio, ne ho 86. Sono nata, di fatto, durante la guerra. E in vecchiaia vivo sempre la guerra”. Piange su ciò che resta dei suoi libri a terra tra i cocci, le porcellane scheggiate, le tende di pizzo stracciate che si gonfiano ancora al vento, le poltroncine damascate rovesciate. “Quando sparano ho paura, mi scoppiano le orecchie quando esplode qualcosa”.
Sopravvivenza quotidiana
“La nostra giornata negli scantinati? Ci alziamo, accendiamo la stufa a turno per scaldare il cibo. Cuciniamo, raccogliamo la legna e la tagliamo. Ma per la maggior parte del tempo sparano e arrivano le bombe, pertanto cerchiamo di stare nello scantinato accanto alla stufa a scaldarci. Ci laviamo con l'acqua piovana, ora è finita. Lo scantinato ci dovrebbe proteggere ma la vita qui sotto non è salubre, stare al buio peggiora la vista”.
Mangiano a lume di candela, il rancio arriva nei pentoloni e viene distribuito a mestoli. Ciascuno si mette in fila con il suo barattolo o scatola di fortuna. Sono i volontari a portare loro il cibo, il pane, persino panini dolci, qualche volta. Arrivano con le coperte, le cassette del pronto soccorso, il sapone e gli asciugamani. “Cosa danno oggi? Tutto.”, sono i discorsi della gente davanti al furgone. Se ci sono anche le patate, sono felici.
Dolore, resistenza e nuovi equilibri
“L'Ucraina vive tempi molto difficili ed ogni famiglia vive il suo dolore. Sento dolore. È un dolore dell'anima. Ogni giorno l'anima fa male. Fa male il cuore. In queste condizioni la cosa più importante è la sopravvivenza”, racconta un uomo mentre Radio Ucraina lancia le ultime notizie di guerra da megafoni sui lampioni e i treni blu partono dalle stazioni lasciando a terra i padri di famiglia che salutano mogli e figli baciando i finestrini. Intanto i bambini continuano a raccogliere frammenti di bomba nei crateri, i soldati scavano trincee e i carri armati difendono i confini della patria in mezzo ai campi di girasole. Sotto un cielo plumbeo nemmeno i fiori sono rivolti al sole.
“Dobbiamo imparare a convivere con tutto questo e lottare. Piano piano abbiamo rimesso le finestre, tolto i vetri rotti e ci siamo abituati alla nuova vita in guerra. Quando entri in casa tutto sembra essere come al solito ma quando esci fuori ti assale la tristezza. Quando scenderà la neve e cadranno le foglie tutto questo apparirà nella sua evidenza. Farà impressione”, dice un uomo.
“Ci prendiamo cura di noi stessi perché se ci lasciamo considerare vittime allora saremo vittime. Vorrei che tornasse tutto come prima ma non sarà mai più come prima”, continua una donna.
Il desiderio di pace e libertà
“Vogliamo la pace”, assicurano gli abitanti di Bucha nel documentario sin da quei primi giorni di guerra. In ucraino pace si dice Mir. “Abbiamo bisogno sia della pace che della nostra amata Ucraina. E vogliamo la libertà che vuol dire non essere costretti a vivere con una canna di fucile puntata e poter fare ciò che si vuole veramente”, precisa uno di loro.
Per riavere la pace, la Russia ha dettato condizioni inaccettabili tra cui la cessione di territori ricchi di terre rare, inclusi quelli che non ha conquistato sul campo, e il riconoscimento del russo come lingua ufficiale. Gli ucraini hanno già fatto sapere di rifiutare perché non sono disposti a rinunciare alla propria sovranità territoriale e alla propria cultura e identità. Il Dombass è sì una riserva importante di litio e titanio ma è soprattutto la loro terra, fosse anche povera di minerali.
E la loro lingua, risalente all'XI secolo, è considerata una delle più melodiche al mondo. Sebbene la storia li leghi alla Russia, gli ucraini hanno dichiarato ufficialmente la propria indipendenza dall'Unione Sovietica nel 1991 e non intendono rinunciarvi. Nonostante i vertici di Anchorage e Washington, la tregua e la pace sono sempre più lontane.